Facchetti commuove l'Inter: «Vi racconto l'anno della prima stella»
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Facchetti commuove l’Inter: «Vi racconto l’anno della prima stella»

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Gianfelice Facchetti ha raccontato con una certa emozione la prima stella conquistata dall’Inter nel 1966: le parole toccanti

Per celebrare la seconda stella dell’Inter, Gianfelice Facchetti ripercorre sulle pagine del Corriere della Sera il momento in cui i nerazzurri conquistarono la prima.

INTER –

«Riavvolgere il nastro di stella in stella, dalla seconda alla prima, richiede una piacevole acrobazia all’indietro di circa sessant’anni. Per me è facile, non ero ancora nato. Il mio babbo invece sì e se la giocava nel fior della giovinezza, sua e dei suoi compagni straordinari di giochi. Uno sopra tutti, quello con il pallone che, a quel l’Inter scintillante, riusciva piuttosto bene. Breve riepilogo per chi non c’era o viveva distratto.

Dal 1962 al 1967: i nerazzurri vinsero tre scudetti, ne lasciarono due per strada tra uno spareggio con il Bologna e un infortunio a Mantova, conquistarono Coppa dei Campioni e salirono sul tetto del mondo per due stagioni di fila, sfiorando il tris. Nella stagione 1966/67, con obiettivi chiari come d’abitudine nel club ambizioso di Angelo Moratti, il battaglione guidato da Helenio Herrera lasciò alla concorrenza la possibilità di fare prove di supremazia nel girone d’andata.

Quell’anno c’era da sbaragliare soprattutto la concorrenza di Napoli e Bologna. Di noi dicevano che fossimo troppo difensivisti, dicevano cose che ogni tanto oggi di con o ancora, chiacchiere a cui i tifosi dell’Inter sanno rispondere meglio di chiunque altro con ironia. Allora era il catenaccio l’ossessione, oggi il gioco europeo e domani chissà…

Intanto, l’ultima squadra italiana a vincere la Champions League e a giocarsi una finale nella stessa competizione è stata proprio l’Inter. Non facciamoci distrarre però, perché questo è il tempo per celebrare i campioni d’Italia di oggi, buttando l’occhio a quelli di ieri, entrambe formazioni in cui, oltre a quelli degli attaccanti, sono molti i gol portati anche da difensori e giocatori di altri reparti.

La complessità come carta vincente, per non dare mai riferimenti a chi si trova di fronte sul rettangolo verde. Ieri un mago in panchina, oggi un demone. Nell’anno della prima stella, a metà cammino, ci fu la fermata obbligatoria allo stadio «Avellaneda» di Buenos Aires, dove i nerazzurri fecero stropicciare gli occhi a tutto il mondo, caduto ai piedi della squadra più bella. La Coppa Intercontinentale infatti, sarebbe rimasta nel-la nostra bacheca, grazie a una nuova vittoria sugli argentini dell’Independiente.

All’andata fu 3-0, grazie a Peirò e Mazzola, che realizzò una doppietta: al ritorno bastò difendersi con unghie e denti, per svegliare gli dei e i tifosi avversari a suon di urrà e olè. Rientrati a casa dopo il trionfo, puntammo alle stelle, ne sarebbe bastata una sola purché fosse nostra. Per farlo ci buttammo nella calca del campionato, con l’intento di scriverci sopra il nome della squadra nata in una notte di marzo del 1908. Correa dunque il campionato 1965-1966…»

FACCHETTI PADRE

«Per mio padre, nel pieno della maturità calcistica, quell’annata fu benedetta. Una delle intuizioni di Herrera, infatti, fu Facchetti terzino sinistro con licenza di fare gol e che, in quell’anno, ne segnò ben 10, numero perfetto. A tre giornate dalla fine, una doppietta realizzata contro la Juventus spianò la strada verso il decimo scudetto. Per un soffio, pochi giorni prima, alla squadra non era riuscita anche una nuova impresa contro il Real Madrid in Coppa dei Campioni.

Sfumata la cometa europea, l’Inter si ricamava una stella d’Oro su una maglia che conservo ancora. A occhi chiusi saprei de-scriverne bene stoffa, peso e profumo; ai polpastrelli basta scivolare sull’astro cucito a mano per avere un sussulto. I fili sottili intrecciati sfregano sulla pelle come in balia di movimenti impercettibili e tutto torna in gioco, passato e presente, come con una diapositiva o un vecchio filmino, tra realtà e sogno.

A proposito di chimere, ho scolpita nella mente una foto che ritrae Armando Picchi, capitano della «Grande Inter» uscire dal campo usando la Coppa Intercontinentale come scudo, per difendersi dalle sassate lanciate dai tifosi avversari inferociti. Non ho mai scoperto se si trattasse dell’edizione del ’64 o quella del ’65, cambia poco, alla memoria può bastare così. Forse da quel cielo di Argentina non piovevano sassi ma polvere di stelle, briciole di gloria. Quella che il calcio regala a chi la sa raccogliere, da sempre, seppiata o a colori non fa differenza. È la vita, con quelle due tre cose che contano per davvero: la legge morale in me, il cielo stellato sopra di me e in mezzo l’Inter»

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